Lungo il corso del
Seicento, secolo di accademie letterarie, poemi monumentali e disinvolto
dilettantismo, sono facilmente individuabili, all’interno del dibattito
teorico sulle arti poetiche e figurative, delle speculazioni
filosofiche ed erudite volte a giustificare quelle che all’occhio
dell’osservatore più colto potevano apparire come delle disturbanti
infrazioni a un codice retorico stratificato. Tali infrazioni minavano
il precetto aristotelico di verosimiglianza come requisito fondamentale
dell’opera; ovverosia la narrazione degli avvenimenti doveva essere ben
concatenata, rispettare un ordine diacronico verosimile ed evitare
errori di infondatezza storica.
Nel clima culturale
secentesco è proprio con il riferimento alle potenzialità mimetiche
della pittura e alla sua connaturata capacità di slegare il racconto da
una serrata logica di rispetto dei tempi che tali precetti vengono
scombinati, fino a creare posizioni critiche contraddittorie nei
confronti della Poetica aristotelica.
Veniva così a
succedere che il letterato partigiano del pittore o l’artista critico di
se stesso dovessero palesare, a scanso di equivoci, i propri intenti
programmati; ciò poteva trovare spazio all’interno dei non rari libelli
circolanti o in opere di respiro più ampio.
Una delle più
lungimiranti formulazioni, a tal senso, viene dal crogiolo della critica
letteraria e getta le basi fondanti di un topos che sarà
ripetutamente adoperato dalla critica secentesca sulle arti figurative.
Si tratta dell’operazione compiuta dal letterato girovago Giulio
Strozzi, fiorentino di nascita, al soldo dei Borghese, che nel 1621
pubblica il poemetto intitolato Il Natal di Amore Anacronismo[1].
L’opera, nata
all’interno delle dispute su generi letterari, spicca per la sua
originalità, e in una sorta di fusione tra poesia, romanzo e tragedia,
racconta di Amore scacciato da Giove sulla terra a creare scompiglio. Al
di là dell’interesse che l’opera riveste per l’assoluta libertà con cui
vengono trattate determinati argomenti (in particolare quelli
amorosi), Strozzi, a prefazione dello scritto, inserisce una
giustificazione all’ultilizzo anacronistico di tempi e personaggi
all’interno di favole:
Significa anacronismo un error preso nel tempo.
Questo gentilissimo error è molto frequente appresso i pittori, perché
bene spesso in un sol quadro mettono insieme molta leggiadria vari
personaggi che in tempo molto diversi fiorirono. Io fo il medesimo nel
Natal Amore, ma vi ho aggiunta l’unità dell’azione col suo modo, e ho
formata da molte favole a mio capriccio la tragedia del genere umano.
Anzitutto quello che mi sono allontanato delle regole e leggi comuni, e
ho errato a bello studio per formare una stravaganza. Platone ne’ suoi
dialoghi fece degli anacronismi, e Virgilio con quel celebre di Enea e
Didone ci mostrò che non era peccato saperne fare (..) Non bisogna
condannar subito la libertà dei poeti è gran politica quella di colui
che ridendo sa imprimerci il vero
Vale la pena notare
il colpo d’avanguardia critica del letterato fiorentino, poiché non solo
decodifica un tipo di dispositivo insito ai meccanismi della
rappresentazione pittorica, ma lo elegge con locuzione ossimorica a
“gentilissimo error”; dunque qualcosa che devia da un canone fornendo,
in modo alternativo, vividezza al filo del racconto. Altro elemento di
interesse tutt’altro che secondario è considerare il soggiorno del
letterato presso la corte romana dei Borghese (anche se il poema sarà
pubblicato a Venezia, città più libera dalla censura della Santa
Inquisizione), famiglia per i quali il pittore Giovanni Lanfranco
affrescherà il Concilio degli Dei, quasi una trasposizione pittorica della scena di concilio di cui effettivamente si narra nel poemetto dello Strozzi.

Giovanni Lanfranco, Concilio degli Dei, Villa Borghese, Roma 1624-25
Ma al di là delle
analogie difficilmente documentabili -tra lo scritto e l’affresco- un
anello di congiunzione tra la speculazione strozziana e la pittura del
Lanfranco esiste ed è rintracciabile negli scritti del letterato
parmense Ferrante Carli. Che il Carli abbia letto il poemetto e
l’introduzione del Natal di Amore anacronismo lo si può dedurre
facilmente partendo da due osservazioni: in primo luogo nelle dediche
al “Signor Pietro Giacomo Cima” e al “Signor abbate Francesco
Cavalcanti” si chiede esplicitamente che l’opera sia posta
all’attenzione di tutta una serie di eminenti personalità della cultura
romana del periodo (Cassiano dal Pozzo, Virginio Cesarini ecc..) tra cui
“Ferrante Caroli”; in secondo luogo dalla piena adesione alla poetica
dell’anacronismo che quest’ultimo dimostrerà, di lì a poco, nel suo
scritto a difesa della celebre Assunzione della Vergine che lo stesso Lanfranco affrescherà nella Cupola di Sant’Andrea della Valle.

Giovanni Lanfranco, Assunzione della Vergine, Sant’Andrea della valle, Roma, 1624-28
Lo scritto in questione è, appunto, la Descrizione della Cupola di S. Andrea della Valle depinta dal Cavalier Giovanni Lanfranco[2].
Nato probabilmente per essere divulgato all’interno di un circolo
ristretto di amatori d’arte, sottintende un celato intento polemico a
causa della forte competizione venutasi a creare tra due fazioni:
Agucchi-Domenichino, da una parte, e Ferrante Carli-Lanfranco
dall’altra. Lo schema è quello del letterato che assume il pittore sotto
la propria ala protettrice al fine ultimo di ottenere l’allogagione di
opere importanti, e all’interno di questa dinamica non va sicuramente
sottovalutato il fatto che Domenichino, in Sant’Andrea, stesse
affrescando i pennacchi nel momento in cui gli venne soffiata, dal suo
rivale Lanfranco, la più importante commissione della cupola[3]
soprastante. Al di là della componente polemica presente nella
descrizione del Carli, laddove si avvale di un’autentica riabilitazione
critica dell’auctoritas di Correggio quale fonte primaria della
pittura lanfranchiana, il letterato prende a prestito il formulario
critico dello Strozzi di cui sopra si diceva:
Resta che si tocchino alcune cose
dell’invenzione, nella quale alcuni ingegni hanno avuto occasione di
dubitare non leggermente, non considerando che la pittura, come la
poesia, fabbrica l’immagini, e s’appartiene alla virtù fantastica, e ha
licenza di porre insieme cose con qual che verisimilmente, che per altro
non si potriano congiungere, e ch’ella di più ha ottenuto privilegio
sopra il potere della natura d’aggiungere i tempi già molto prima
passati al presente, e spesse volte d’accozzare i tempi che sono stati
molti secoli dopo quelli, che sono scorsi già molti secoli prima, e che
salva questa impossibilità, resta però verisimile da qualche artificio,
sotto la coperta dell’anacronismo, ch’è una licenza di abusare senza
biasimo delle diversità de i tempi in un istesso momento.
Fondamentalmente,
come affermato negli scritti citati, tale licenza consiste nel mettere
in scena una sintesi di avvenimenti, dipinti o lirici, e impaginarli non
tenendo conto dell’originale svolgimento della favola o della storia.
Il fatto che l’espediente critico sia adoperato per un pittore come
Lanfranco, che per il piglio narrativo più retoricamente connotato si
discosta certamente dal classicismo pausato del Domenichino, non deve
tuttavia far cadere in facili fraintendimenti. La giustificazione
retorica dell’anacronismo, infatti, che si presenta apparentemente come
congegno applicabile soprattutto a parallelismi scenici dall’impaginato
vorticoso -come nel caso della cupola affrescata da Lanfranco- non
veniva affatto accostato solo a questa tipologia di opere pittoriche, e
non è per niente interscambiabile con quello che noi oggi identifichiamo
con la stretta etichetta di barocco. L’anacronismo come
licenza impiegata dai pittori comparirà infatti anche all’interno di un
importante scritto d’arte di Giovan Pietro Bellori, caratterizzato da un
orientamento estetico di segno opposto: la Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle d’Urbino[4].

Raffaello, Loggia di Psiche, Roma, Villa Farnesina 1518-19
Qui, il biografo, che
si sofferma su alcuni capisaldi della produzione figurativa del Sanzio,
soggiace alla volontà generale di prensentare il pittore urbinate quale
capostipite di quella stessa estetica classicista, basata sull’Idea del Bello, che aveva caratterizzato apertura e leitmotiv delle Vite de’ pittori, scultori et architetti moderni. Arrivato alla descrizione del Concilio degli Dei
nella Loggia di Psiche, Bellori, pur senza utilizzare alla lettera “la
coperta dell’anacronismo”, sembra prenderne a prestito il meccanismo. Ed
è, infatti, proprio all’interno di quest’opera che lo sviluppo
narrativo impostato da Raffaello, a detta del Bellori, sarebbe stato
diviso in due subordinate narrative: a destra la riunione tra gli dei
chiamati da Giove a deliberare sul caso di Amore e Psiche; all’estrema
sinistra, invece, compare la giovane Psiche intenta a bere il calice di
ambrosia che le avrebbe donato l’immortalità e permesso di sposare il
dio Amore.
Finge Apuleio che Giove, commosso alle
parole di Cupidine chiamasse in cielo gli Dei, ed esponesse le cagioni
delle sue nozze, e che placata Venere, egli stesso e di sua mano
porgesse a Pische la tazza dell’ambrosia e la facesse supplicante avanti
a Giove, e Venere appresso, che l’accusa, con Mercurio in disparte, che
porge a Psiche la bevanda immortale. A tal mutamento Raffaelle si
accomodò per più cagioni: l’una fu il riunire le parti divise in Favole,
e ‘l dar certezza a gli dei delle cagioni per le quali erano stati
chiamati al Concilio, dovendosi stabilire l’eterno decreto
dell’immortalità di Psiche. Alle quali ragioni si aggiunse la necessità
del soggetto, che lo costrinse ad insfuggire due azioni simili in due
immagini esposte alla vista nello stesso luogo, senza quella varietà che
tanto si ricerca. (..) Da che si comprende quanta licenza ed autorità
abbia il Pittore, quanto sia erudito ed ingegnoso di allontanarsi dal
poeta nell’azione ed espressione della favola, variando i mezzi ed
unendo le parti per conseguire l’unità sua, purché egli convenga con
l’immagine nell’istessa rappresentazione del Poeta.
Nella lunga pagina a
chiusura della descrizione della loggia, Bellori fornisce dunque
un’interpretazione teorica delle scelte maturate dal magistero
raffaellesco: se la fonte letteraria, in questo caso Apuleio, divide gli
avvenimenti in due distinti episodi, il pittore, a suo modo, individua i
due brani del racconto letterario e li dispone all’interno del medesimo
spazio (narrativo) pittorico. Si tratta di un appiglio critico molto
simile a quello comparso ad inizio del poemetto dello Strozzi e
(re)impiegato da Ferrante Carli per descrivere le pitture del Lanfranco.
La ragion d’essere di questa teoria, che sin dalla sua formulazione
appariva visibilmente ancorata ai principi della pittura, verteva,
dunque, sulla possibilità dei pittori di ricorrere a dispositivi di
simultaneità tra due scene per facilitare la lettura generale di un’
”istoria”. Lo stesso funzionamento, sempre in Bellori, è ravvisabile
nelle pagine in cui si menzionano le Tre Grazie raffigurate nei pennacchi della medesima Loggia:
Con questa licenza istessa Raffaele
nell’uno de’ triangoli finse le tre Grazie con Amore che addita loro a
terra la beltà di Psiche, la quale azione tace Apuleio, né parla delle
Grazie, se non nel Convito quando esse versano i balsami sopra gli Sposi
nel modo che abbiamo descritto. Non però il Pittore uscì dall’argomento
della Poesia, ma intraprese a rappresentarle per vaghezza e verità
delle sue figure, le quali essendo rappresentate in più vedute, et
attitudini in faccia, ed in profilo, mancava una volgesse le spalle per
dimostrare da tutte le parti l’artificio perfetto d’un perfetto corpo,
al qual effetto elesse il dipingere, e dipinse di sua mano le Grazie
nell’atto che si sogliono fingere, dalle quali egli riportò il cognome
di grazioso e di venusto.
Anche in
quest’occasione lo scrittore, ammettendo l’inesattezza letteraria del
soggetto, sta paradossalmente celebrando la capacità inventiva del
pittore e, implicitamente, tessendo gli elogi dell’arte della pittura.
Si tratta di un intento anche qui programmatico poiché, presentando
Raffaello come il nuovo Zeusi, non si fa altro che dare un ulteriore
risalto al criterio di elezione formale insito a tutta l’estetica
belloriana.
Il ricorso a questo
vocabolario critico, profondamente radicato nella letteratura antica
sull’arte, trova la sua più lucida dichiarazione nel sopra citato
discorso di Bellori ad apertura delle Vite, laddove, con inedita lucidità, lo scrittore d’arte pone un chiaro riferimento alle Eikones
di Filostrato, sottraendoci a quel labirintico gioco di citazionismo
celato e travestimento letterario che è solito trovarsi nel magma degli
scritti d’arte -e non solo- della prima metà del secolo.
Alcuni dei molteplici artifici citati erano infatti mutuati direttamente dai tableaux descritti da Filostrato. Ed è in particolare nel Bosforo,
una delle immagini più complesse dell’intera opera, in cui la tecnica
ecfrastica deve intrecciarsi a tre distinti momenti per la natura della
scena rappresentata, che l’autore è costretto a chiarire quale artificio
avesse adoperato il pittore: “il quadro ha rappresentato le cose
presenti, le cose passate e persino alcune di quelle che potrebbero
darsi”.
[1] GIULIO STROZZI,
Il Natal di Amore Anacronismo, Venezia, Giovanni Alberti, 1621, ed. moderna a cura di Marco Arnaudo, Padova, Antenore, 2010.
[2] Comparsa in NICHOLAS TURNER,
Ferrante
Carlo’s “Descrittione della Cupola di S.Andrea della Valle depinta dal
Cavalier Giovanni Lanfranchi”: a source for Bellori descriptive method, in “Storia dell’arte”, XII, 1971, pp. 297-325.
[3] ALMARA TANTILLO,
Un’accusa di plagio nelle arti figurative, in “Studi (e testi) italiani”, I, 1998, pp. 356-371.
[4] GIOVAN PIETRO BELLORI,
Descrizione delle immagini dipinte da Raffaelle d’Urbino, Roma, Lorenzo Barbiellini stampatori e mercanti di libri a Pasquino, 1751.